(da www.buongiornoroma.it)
marzo 12, 2011 di Pierfranco Pellizzetti Di solito, quando si parla di “capitale”, il pensiero corre a quello “economico”: il denaro posseduto. Un po’ banale visto che tutti noi disponiamo anche di altre risorse da “portare a capitale” per raggiungere gli obiettivi che ci siamo prefissati, sia i saperi come le relazioni di cooperazione. Risorse che ognuno eredita in misura asimmetrica, secondo quanto il filosofo John Rawls definiva “la lotteria della nascita”. Un altro capitale è quello “umano”: le qualifiche, le competenze, gli atteggiamenti individuali che facilitano il benessere individuale, sociale ed economico. Una vulgata corrente attesta come, favorendo la produttività e l’innovazione, quest’ultimo concorra alla crescita produttiva di un Paese; mentre quello “relazionale” ne aumenta la coesione interna e l’orientamento alla partecipazione democratica. Per dirla con il politologo di Harvard Robert Putnam, “le reti sociali hanno valore. Come un cacciavite (capitale fisico) o l’istruzione (capitale umano) possono aumentare la produttività (sia individuale, sia collettiva), allo stesso modo agiscono i contatti sociali”. Quindi, risulta di estremo interesse valutarne i livelli di accumulazione nell’Italia odierna, sensori del dinamismo economico e consenso politico. L’operazione realizzata di recente da Treelle, il think tank bipartisan sull’apprendimento continuo, ci fornisce dati non confortanti. Il Rapporto misura il capitale umano con due indicatori: confronto tra i titoli di studio e la loro distribuzione nei vari Paesi; analisi delle competenze realmente agite. In quanto ai “titoli”, se la popolazione tra i 25 e 64 anni dell’area Ue raggiunge un livello “terziario” (laurea e postlaurea) del 24 per cento, in Italia siamo al 14. La situazione rilevata in materia di comprensione di testi e grafici (literacy) e nella capacità di utilizzare in modo efficace strumenti matematici (numeracy) registra un ulteriore ritardo italiano rispetto alle medie Ocse. Già negli studenti quindicenni: la literacy scientifica, che in generale si colloca al 29 per cento, da noi scivola al 19.
Se ne ricava che la popolazione italiana ha un’istruzione debole,
